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Journey è solo l’ultimo di una serie di videogame che tentano strade nuove…

Il 14 marzo Journey, il nuovo videogioco-esperienza della Thatgamecompany, è arrivato sul Playstation Store ed è destinato a stimolare ulteriormente il già gettonatissimo dibattito sul futuro dei videogames. Quale orizzonte per un settore da venticinque miliardi di dollari la cui caratteristica principale è quella di essere costantemente in movimento?

Videogiocare è esperienza. Lo è sempre stato, fin dalla notte dei tempi. Dotati di una manciata di pixel e della possibilità di far interagire l’utente, la strada sembrava tracciata con decisione; magari la grafica si evolverà, magari arriveremo al fotorealismo, ma che l’utente sia coinvolto, per carità, divertito e, preferibilmente, ossessionato dalla prestazione. Diversamente, il film avrà sempre la meglio nell’eterna lotta per accaparrarsi il tempo libero dei consumatori.

E così è stato. Nella modernità i campi erano separati, nettamente. Da una parte il cinema, dall’altro il videogioco.
Se c’erano contaminazioni erano puramente funzionali; il marketing delle produzioni cinematografiche mirava alla popolazione degli appassionati di un certo videogioco per fare box-office senza impegnare troppo i propri writer. I game designer subappaltavano scene in computer grafica per offrire ricompense tra un livello e l’altro.

E questo era tutto.

Il 2000 è l’anno della svolta, o perlomeno di un inizio di cambio di paradigma.E’ l’anno della Playstation 2, il primo hardware sul quale gli sviluppatori iniziano a sognare di far esprimere qualche emozione ai propri personaggi.

Mario nacque già imbizzarrito in un’eterna lotta contro Donkey Kong (1981), ma la sua rabbia e determinazione traspiravano difficilmente dalle limitate animazioni di cui era capace; venne perfino dotato di baffi e cappello per evitare che capelli e bocca, pietrificati sempre nella stessa posizione, potessero tradire la sua natura di pixel evoluto.
Tutto questo sembrava ormai finito di fronte alle incredibili capacità della console che sarebbe poi risultata la più venduta di sempre (record che detiene ancora oggi). E infatti ecco arrivare nel 2001 due titoli che, seppur molto diversi tra loro, erano i precursori di un nuovo genere: Ico e Rez.

Ico è un videogioco tanto emotivo quanto misterioso in grado di catturare il giocatore in un universo fatto di grandi vuoti visivi e silenzi poetici. Muoversi al suo interno significa dimenticare le convenzioni del videogioco per concedersi un viaggio in una sorta di terra di mezzo tra l’interazione e la contemplazione. C’è una narrazione, ci sono livelli da percorrere, esistono perfino dei boss da sconfiggere…ma tutto questo non è al servizio degli obiettivi classici del medium videoludico. Si cerca il trasporto, in Ico, il transfert, quasi un nirvana dei sensi.

Un nirvana dei sensi che è anche il punto di congiunzione con Rez, un videogioco che sceglie la strada dell’allucinazione psichedelica per coinvolgere il giocatore in un’esperienza dal sapore paurosamente ipnotico. Semplici forme geometriche che prendono le sembianze di idoli e pietre miliari della cultura umana in salsa di musica trance.

Siamo agli esordi della cultura postmoderna con il suo culto per il pastiche e l’esperienza immediata a dettar legge. Narrazione, schemi proppiani, ricompense immediate sono concetti ormai vecchi, pronti per la rottamazione. Si corre veloce nei nuovi videogiochi, si cerca il flow, ma soprattutto l’emozione come catalizzatore dell’attenzione più che la mera interazione per sbloccare elementi di gioco e obiettivi finali.

Braid e Limbo impareranno la lezione (reiterata nei seguiti di Ico e Rez) e applicheranno la teoria in maniera efficace.

Journey è un altro passo in questa direzione, deciso e coraggioso. Per tredici euro si acquista un’esperienza di gioco dalla durata di circa tre ore; poco più di un biglietto del cinema, cinque volte meno di un gioco “normale” al lancio.

Journey è il regno del decontestualizzato. Non c’è alcun collegamento con la realtà, è pura esperienza, soprattutto visiva; ciò che si fa materialmente attraverso il pad conta molto meno del solito e si ha la netta sensazione che il punto non sia per niente lì (non esiste né il concetto di punteggio, né quello di fallimento), esattamente come in un balletto l’esperienza dello spettatore ha ben poco a che fare con i movimenti del ballerino.

Fedeli alla cultura contemporanea, l’obiettivo è nel viaggio più che nella meta, nell’esperienza del visivo che finalmente si unisce fluidamente con l’interazione.
Non c’è nemmeno niente di unitario in Journey, vi si affollano generi e contaminazioni con una naturalezza sconcertante; ma è chiaro che di ogni singolo videogame citato precedentemente troverete traccia in Journey.
Tutti pezzi diversi che però non vengono offerti a un’esperienza frammentata, bensì allo scopo di ottenere un tutto che è maggiore della somma e che travalica i confini del videogioco.

Si ha anche la netta sensazione che di umano ci sia poco, che nei nostri gesti di videogiocatore si tenti di raccontare una realtà altra. Come quando si incontra un altro giocatore e si inizia a modellare le proprie azioni sulle sue: correre, scivolare, volare, aiutarsi. Al limite anche abbozzare una comunicazione disponendo solo di un unico suono e del linguaggio del nostro corpo.
Vengono in mente i delfini.

Le strade del film e del videogioco sembrano essere ormai sempre più intrecciate. E’ quasi una riflessione obbligata; basta passare una serata di fronte a Journey e farla magari seguire dalla visione di Act of Valor, il nuovo film di Relativity Media, che mima fedelmente una delle serie di videogiochi di maggior successo di sempre, Call of Duty.
Siamo agli albori di un nuovo linguaggio, fatto soprattutto di intertestualità e intermedialità. Per dirla semplice: gioca il videogioco, vedi il film, commenta su Facebook, twitta l’esperienza, segui i commenti sui forum ed esplora contenuti collegati su Youtube. Il tutto mescolando in ogni medium elementi degli altri media.

E’ più del concetto di “ibrido”. Frederick Jameson, il maggior teorico del postmodernismo, arriva a comparare il fenomeno a una schizofrenia euforica vista come serie di interruzioni continue nelle catene di significanti-significati.

Noi stiamo al centro, forse un po’ stressati, ma molto lontani dalla posizione di passività totale che i teorici dell’apocalittico “televisivo” avevano teorizzato.
Non c’è pace per i sensi dell’uomo postmoderno, nemmeno nell’intrattenimento.

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